FABIO PICCIONI
PHOTOGRAPHER

Articoli: Josef Koudelka, il fotografo senza nome - prima parte

Ci sono individui che hanno passato la propria vita a documentare eventi lontani. Persone che sentono l’esigenza di uscire dalla propria zona di comfort con la voglia di conoscere e raccontare. Alcuni di questi poi decidono di abbandonare tutto in cambio di un viaggio verso l’ignoto. Il fotografo di cui vi parlo oggi è uno di questi.



Parte prima

Josef Koudelka nasce in Cecoslovacchia nel 1938. Si laurea a Praga attorno ai primi anni sessanta, periodo in cui organizza la sua prima mostra fotografica. Mentre lavora come ingegnere aeronautico ottiene delle commissioni da diverse riviste teatrali per documentare il dietro le quinte delle grandi produzioni del Teatro di Praga, lavoro che riceverà un importante riconoscimento da parte dell’Unione Artisti Cecoslovacchi per la qualità innovatrice delle sue immagini. Successivamente intraprende i primi viaggi fotografici che lo porteranno a sviluppare uno dei temi portanti della sua carriera: le comunità rom d’Europa.

Dal 1962 al 1971 infatti racconta il vissuto delle popolazioni nomadi prima in Cecoslovacchia e poi in Romania, Ungheria, Francia e Spagna. Nelle sue foto traspare il ritratto vero e spontaneo di un popolo sempre contestato per via della sua natura anticonformista. E così feste religiose e spettacoli teatrali d’avanguardia coesistono con magia e culto della morte. Si dice che Koudelka in quella decade documentò gli anni d’oro delle popolazioni zigane armato solo della sua macchina fotografica, di uno zaino e di un sacco a pelo. Un periodo di prosperità agevolato dal regime comunista che difese queste etnie dal razzismo di cui furono vittima durante la seconda guerra mondiale. Nel 1989 però, la caduta dei regimi comunisti porta rapidamente i rom ad essere di nuovo additati, criticati e perseguitati.

Emarginazione, isolamento e alienazione coesistono tra le sue opere e la sua vita privata.

Nel 1975 pubblica “Gitans. La fin du voyage”, un documento senza precedenti che porta agli occhi del mondo la testimonianza di vita di intere popolazioni e della loro cultura. Il libro ha un impatto devastante tanto che l’allora direttore del Museum Of Modern Art di New York, John Szarkowski, curò personalmente una speciale edizione americana in accoppiata ad una mostra imponente: “Gypsies“. Collocata all’interno delle Steichen Galleries, l’esposizione composta da 43 opere circondate da semplicissimo passe-partout bianco rimase esposta al MOMA dal 28 febbraio al 30 aprile del 1975. Per questo lavoro, tre anni più tardi, Koudelka riceverà il prestigiosissimo Premio Nadar.











Adesso occorre tornare un attimo indietro. Attorno alla metà degli anni sessanta la Cecoslovacchia affronta un periodo di riforme noto come Primavera di Praga a cui fa seguito una severa repressione da parte di Mosca. Appena rientrato da uno dei suoi viaggi il giovane fotografo partecipa attivamente ai moti popolari che sconvolgono le vie della città, scattando immagini indelebili che mostrano al mondo la vera anima della Cecoslovacchia e la violenza della repressione dell’Unione Sovietica. Tutto sarebbe rimasto sepolto a Praga se le fotografie di Josef Koudelka non fossero uscite clandestinamente dai confini della nazione. Per paura di ritorsioni verso di se e la sua famiglia affida di nascosto i suoi negativi a Eugene Ostroff, curatore del Dipartimento di Fotografia allo Smithsonian Institution di Washington che per caso è in visita a Praga in quei giorni. Ostroff a sua volta consegna il materiale del fotografo nelle mani dell’allora presidente dall’Agenzia Magnum: Elliot Erwitt. Erwitt si impressiona così tanto per il lavoro svolto dal fotografo ceco che riesce a farsi consegnare tutto il resto dei negativi che ancora sono nascosti a Praga. Con l’aiuto e la volontà dell’agenzia Magnum Photos le immagini vengono pubblicate nell’agosto del 1969 sul periodico The Sunday Times in forma anonima per tutelare Koudelka e i suoi familiari. Appaiono solo due iniziali, P.P., Prague Photographer. Le fotografie faranno il giro del mondo su diverse riviste e testate ma resteranno senza nome per ben 22 anni.

Per aiutare il fotografo ad allontanarsi da quella situazione pericolosa Erwitt gli propone una sorta di borsa di studio per poter fotografare gli zingari dell’Europa dell’ovest. Con l’aiuto di un amico che lavora al Ministero della Cultura della Cecoslovacchia riesce ad ottenere un permesso di 80 giorni per poter stare fuori dalla nazione. Durante questo grande viaggio in Francia, Scozia e Irlanda riesce a raggiungere l’ufficio della Magnum di Parigi. È un momento delicato perché a Koudelka viene consigliato di non ritornare in Cecoslovacchia in quanto anche se le immagini sono state pubblicate in forma anonima per la polizia sovietica è solo una questione di tempo riuscire a risalire all’autore. Il fotografo decide allora di andare in Inghilterra dove richiede asilo politico. È il maggio del 1970. Ecco che si va a definire un altro dei temi portanti della vita dell’autore e delle sue opere: l’esilio.

Nel 1988, dopo tanti anni, le immagini della Primavera di Praga vengono pubblicate con il suo nome e cognome. Il libro “Exils” viene stampato dal Centre National de la Photographie in occasione di una mostra presentata a Parigi al Palais de Tokyo dal 16 marzo al 30 maggio dello stesso anno. È infatti solo dopo la morte del padre che il fotografo può dichiarare apertamente la proprietà di quelle immagini. Nello stesso anno “Exils” riceve il premio come miglior libro di fotografia dall’International Center of Photography di New York. Nel 1989 Koudelka ritorna in Cecoslovacchia dopo ben 19 anni di assenza. Non bisogna dimenticare che il 1989 è l’anno del cambiamento e della liberazione dalla morsa dell’URSS per moltissimi paesi dell’est Europa. Nell’agosto del 1990 le fotografie dei moti popolari vengono pubblicate per la prima volta nella nazione all’interno del settimanale Respekt.








Si potrebbe suddividere la carriera di Josef Koudelka in due fasi principali. La prima si è appena conclusa con “Gypsies” ed “Exils”, due lavori immensurabili. Cosa divide la prima fase dalla seconda? Innanzitutto il taglio delle immagini. Non si può infatti trascurare che Koudelka in questo periodo cambia completamente formato, e quindi visione. Siamo attorno al 1990 e finora lui ha prettamente utilizzato formati classici come il 24x36mm e qualche volta il 6×6. Da adesso in poi invece utilizzerà principalmente un formato panoramico. Per questi lavori si affiderà infatti ad una Fuji G617, apparecchio medio formato di eccellente qualità ad ottiche intercambiabili. L’utilizzo delle panoramiche divenne talmente una sua costante che Leica anni dopo adattò appositamente per lui una S2 trasformandola in panoramica, prototipo unico al mondo. Per comprendere meglio questa transizione bisogna però chiedersi perché Koudelka modifica l’aspect ratio delle sue immagini. Questa scelta è indubbiamente dettata dal cambio nell’oggetto delle sue ricerche. Se prima infatti egli era interessato a raccontare le persone e gli avvenimenti che le coinvolgevano, adesso Koudelka si interessa di più al paesaggio, anche se pur sempre antropico. Non è certo la prima volta che Koudelka utilizza apparecchi panoramici, ma è da questo momento che questo tipo di formato diventa sistemico del suo workflow.

Articolo apparso per la prima volta su Nemesis.

Fine prima parte.

Tecnologia: La fine delle reflex

In una recentissima intervista al quotidiano giapponese Yomiuri Shimbun il Presidente e CEO della Canon Fujio Mitarai ha ufficializzato la notizia che in tanti si aspettavano da tempo: la fine delle reflex. L'ammiraglia Canon EOS 1-DX Mark III rimane di fatto l'ultima single-lens reflex (srl) progettata e prodotta.

E quindi dopo che anche altri marchi, di cui tra gli ultimi Nikon, hanno comunicato la fine di un'era anche Canon decide di seguire la stessa strada.

Fujio Mitarai spiega che semplicemente il mercato si è definitivamente spostato sul segmento mirrorless e d'altronde si è arrivati ad una tecnologia tale per cui i nuovi corpi privi di specchio sono in grado di eguagliare le precedenti reflex.

Se andiamo a vedere il lavoro di Canon in questi ultimi anni infatti capiamo subito come, al pari degli altri marchi, il brand giapponese si sia spinto moltissimo nella ricerca e nello sviluppo di questo settore. Possiamo anche ammettere che ci sia arrivata un pò in ritardo rispetto ad altri brand ma ha già prodotto una tecnologia avanzata e affidabilissima.

Mentre la prima mirrorless ad ottiche intercambiabili EOS M prodotta da Canon nel 2012 era ancora destinata ad un uso non professionale, a partire dal 2018 con il lancio della EOS R, prima fullframe mirrorless a ottiche intercambiabili, Canon inizia a convogliare davvero tutte le sue energie sul mondo mirrorless. Voglio rassicurare subito chi ha un grande parco ottiche tradizionale che i nuovi corpi macchina mirrorless consentono di adattare praticamente tutte le ottiche di vecchia generazione con un piccolo adattatore.

I principali vantaggi costituiti da questi nuovi corpi macchina sono diversi. Quello della grandezza è un misunderstanding: in termini di misure i corpi macchina delle ammiraglie mirrorless non differiscono da quelli delle ammiraglie reflex. Se andiamo a confrontare invece i pesi ecco che sulle ammiraglie la differenza si fa già interessante, sulla mirrorless abbiamo circa 300 grammi in meno. Quello però che fa davvero la differenza sono altri dati. Innanzitutto la stabilizzazione del corpo macchina che adesso porta le fotocamere su di uno standard più elevato. Vi è la possibilità inoltre di sommare la stabilizzazione ottica presente sugli obiettivi con quella presente nel corpo macchina permettendo di scattare a mano libera a tempi prima inaccessibili senza treppiede. Altro grande vantaggio da non tralasciare è che grazie all'assenza dello specchio e del pentaprisma la distanza tra piano focale e centro ottico è ridotta e questo ha permesso la progettazione di ottiche di minori dimensioni e in termini di peso e ingombro nella borsa di un fotografo questo fa sicuramente la differenza. Altra grande innovazione è la messa a fuoco, attualmente semplicemente attraverso lo sguardo dell'occhio all'interno del mirino si può selezionare l'area specifica di messa a fuoco senza premere nessun pulsante o muovere nessuna leva.

Potrei continuare sulle caratteristiche ma il punto di questo mio articolo non vuole tanto essere quello di soffermarsi sulla tecnologia dell'ultimo momento quanto di fare una riflessione sul fatto che come è accaduto in passato con la fine della produzione delle fotocamere analogiche, siamo sicuramente di fronte ad un importante cambiamento.

E mentre da tempo c'è chi svende tutto il materiale reflex per acquistare quello mirrorless all'ultimo grido per altri si apre finalmente la possibilità di acquistare ottiche professionali a prezzi fino ad ora inaccessibili.

Ritengo sia comunque importante ricordare che ancora oggi esistono molti fotografi che come me utilizzano serenamente anche vecchi apparecchi fotografici di largo e medio formato senza necessariamente aver bisogno sempre dell'ultima tecnologia sulla terra. Dipende sempre da quale progetto si sta portando avanti e da quali esigenze si hanno di volta in volta. Inoltre oggi molti nuovi marchi, anche grazie alla tecnologia 3D, producono apparecchi a pellicola quasi come prima. Magari questo può essere argomento di un mio prossimo articolo.

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Fotografie: Vedute attorno a Ittireddu

Ecco qualche scatto realizzato con la Fuji GW690III. Ilford FP4, sviluppo in Rodinal.

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